India

Rishikesh, ballando sul Gange. Racconto di viaggio nel Nord dell’India

Rishikesh, ballando sul Gange. Racconto di viaggio nel Nord dell’India

Sul Gange

Le sere indiane non scorrono via senza lasciare segni di amicizie promesse e visioni randagie. Spesso con il gruppo affolliamo un risciò e ci precipitiamo nei quartieri che più hanno subito l’influenza occidentale, con negozi di marche globalizzanti e globalizzate, seducenti luci ed eleganti Café, che espongono bevande conosciute in ogni angolo della terra. Una sera, dall’interno di uno di quei locali, la visione di un bambino vestito a stracci che appoggia mani e viso alla vetrata, tutto intento ad ammirare i dolci del bancone in stile Decò con occhi luccicanti, mi strazia con una lama muta e invisibile; non capisco quale destino ci abbia fatto nascere sotto stelle così differenti, da rendere me una inutile privilegiata e lui un bambino senza futuro. Prima di decidere di rendere utile la buona sorte concessami, quel visino sporco e quelle manine sottili tornano nel buio della notte indiana; di quel destino distorto resta solo un vetro appannato. Esco e una famiglia di mucche scheletriche passeggia defecando pacificamente davanti a uno dei tanti negozi che si possono trovare anche nei parigini Champs-Elysées . “La merda è uguale ovunque” penso.

In Defense Colony c’è un ristorante cinese in cui ci ritroviamo e ci sbronziamo con bottiglioni di birra indiana, intonando canzoni senza senso, tra il disappunto dei turisti e dei camerieri. Manoj è la nostra guida: ci porta nei locali, dispensa passaggi d’auto e indicazioni su “dove” trovar “cosa”. Manoj scherza e beve molto, con Julio passa intere nottate a fumare e a pavoneggiarsi da vero macho. Non mi fermo alle apparenze; poche serate sono sufficienti per scoprire la maschera che indossa: nascosto nel profondo riconosco il marchio della solitudine e di chi ha vissuto abbastanza per conoscere il dolore. Il suo attaccamento al gruppo e il silenzio sulla sua famiglia confermano il mio istinto. Compagne di ventura sono anche Gabriela, una splendida e calorosa ragazza messicana, inviata speciale del giornale spagnolo El Pais, con la sua amica Emily, una mielosa e riservata ragazza inglese, che lavora per un’organizzazione internazionale umanitaria.

In viaggio verso Rishikesh

In attesa alle sbarre

Stanca dell’inquinamento e del caos metropolitano, per il compleanno di Gabriela accetto di buon grado di scappare da New Delhi per passare il weekend a Rishikesh, tra i monti del Nord. Senza aver ancora disfatto le valigie nella mia nuova stanza, prendo il necessario e parto con la frenesia di chi vuole raggiungere la vetta dell’Himalaya in un sol giorno. Conservo ancora lo stress della ricerca della casa, che mi ha tolto il tempo e il piacere del viaggio come ricerca e scoperta. Non vedo quindi l’ora di rendere unico ogni singolo nuovo orizzonte.

Partiamo per il Nord con un’auto noleggiata, sotto direttive di Manoj. Io e Fede siamo un po’ sorprese di avere a nostra disposizione, con 10 euro giornaliere, anche l’autista. “Sto povero cristo, quanto prende di stipendio?” mi chiede Fede con i suoi preoccupati e sgranati occhi azzurri. “Bah! ‘Na miseria, eppure sembra che non se la passi male, visti i vestiti e le sigarette di marca.” Gabriela ed Emily, che vivono in India da circa un anno, sembrano a loro completo agio. Nuova Delhi è alle nostre spalle, ma il traffico non sembra demordere. I furgoni e le macchine sono sostituite a poco a poco con carri e carretti colmi di canne da zucchero essiccate trainati da camion, trattori o da nere vacche, spesso con in cima uno o più contadini che controllano il tragitto. Talvolta nei carri intravvedo non merci, ma i visi rugosi e stanchi di lavoratori e lavoratrici che tornano dai campi, spazi verdi e nebbiosi, simili alle distese coltivate a riso della mia Pianura Padana. Non vedo nessun ettaro lasciato incolto, tutto è premurosamente curato e messo a frutto.

Lungo la strada numerose sono le fattorie: fatiscenti capanne con i tetti colmi di formelle di letame essiccato. Guardo meglio e distinguo tra il verde gracili donne in sari che lavorano a mano nuda il letame per dargli la forma circolare, accanto a pile e pile di formelle nere, spesso addirittura decorate con infantili “grechette”. I villaggi nel nostro cammino nell’Uttar-Pradesh sono sempre colmi di coloratissimi mercatini, con bancarelle che sembrano sul punto di esplodere, tanta è la quantità di merce esposta e di gente che gira tranquillamente in moto o con biciclette arrugginite. Mi diverte vedere come, pur di approfittare di un passaggio, dai furgoni spuntino uomini letteralmente appesi al tetto del mezzo strapieno o come le donne siedano all’amazzone sui motorini, dietro ai loro compagni. Oltre alla coppia, talvolta spuntano motorini con a bordo un’intera famiglia: il più piccolo davanti, in seconda posizione il padre, avvinghiato dalle braccia della madre, dal cui sari svolazzante appaiono le due piccole braccia dell’ultimo figlio che cerca disperatamente di restare in sella, ovviamente nessuno indossa il casco. “Non così diverso da Napoli” penso.

Dopo 3 ore di viaggio abbiamo percorso solo 150 km dei 300 km per arrivare a destinazione. Lungo la strada ci fermiamo in un ristorante indiano occidentalizzato in stile fast-food, un surrogato dei nostri Autogrill, sufficientemente pulito per permetterci di trangugiare un boccone. La maggior parte dei punti di ristoro erano bettole con calderoni all’aperto dove bollivano pentoloni anneriti e la vista di galline e porci, che girovagano liberamente tra i tavoli, toglieva tutto l’appetito che potessi avere. Contenta del ritrovo, mi godo un piatto di riso e cumino; ma mi infastidisce qualcosa che aveva già notato Fede, che prontamente chiede: “Dov’è l’autista? Perché mangia lì da solo?”.

Non potevo capire i precedenti scambi verbali in hindi tra Manoj e l’autista, ma il nostro amico bramino conservava alcuni tratti della sua casta, tra i quali il “dovere” di non sedere alla stessa tavola con persone di casta inferiore alla propria; “dovere” che l’autista ben conosceva, visto il suo spontaneo isolamento. Manoj aveva un atteggiamento di superiorità nei confronti degli indiani di casta inferiore che liquidava con uno sguardo di gelida indifferenza se osavano chiedergli più del dovuto. Mi ricordo quando Federica aveva chiesto il suo aiuto per riprendere i soldi della caparra per una casa, rifiutata all’ultimo per le sue pessime condizioni. Fede, prima dell’arrivo di Manoj, pregava l’irremovibile proprietario e l’avido agente immobiliare, che davanti all’imperturbabile bramino avevano improvvisamente perso i sorrisi sicuri, trasformati in una smorfia angosciosa di sottomissione; con tono sprezzante e altezzoso sguardo Manoj li aveva rimessi al loro “inferiore posto” in pochi secondi, ottenendo il denaro contante all’istante. Se quella vittoria prima mi appariva tosta, ora cominciavo a capire le reali condizioni di base, ovvero la natia superiorità di Manoj, che spianava le montagne del suo cammino e acuminava le vette degli “inferiori”, sottomessi al loro ingiusto destino.

In viaggio rimaniamo bloccati nel traffico senza capire il motivo. Più avanti, vedo le sbarre abbassate di un passaggio ferroviario. “Oh, che figli di puttana!” bofonchia Manoj. “Che succede?” chiede Gabriela. “Qui non passerà mai nessun fottuto treno! Sono solo quei venditori bastardi che abbassano le sbarre e bloccano tutto per vendere la loro fottuta merce!” Anche il contadino in cima al suo carro di canne da zucchero è in piedi che inveisce, mentre una moltitudine di ragazzini fa lo slalom tra i mezzi con carretti ammaccati pieni di merce: rape bianche, carote rossissime, caschi di banane, bottiglioni d’acqua, chapati etc. etc. Siamo circondati da ragazzini petulanti che non demordono nemmeno di fronte alla riapertura delle sbarre. Solo il rapido avanzamento dell’autista li distanzia.

Avanziamo su strade colme di camion, spesso sterrate, finché appare quel fiume chiamato “grande madre”, ritratto mentre sgorga dalla testa di Shiva in persona: il Gange; poco più di un torrente alla nostra altezza. Percorsi 300 km in sei ore di viaggio, Rishikesh ci accoglie al tramonto, carica di melodie sacrali, che sento senza capire la loro provenienza. Tra la lista nella Bibbia dei viaggiatori, la Loonly Planet, libro in tasca a quasi tutti i viaggiatori fai-da-te, avevo scelto per tutti un albergo a basso costo, a sorpresa l’ultimo in cima alla vallata del luogo. Contenta della vist

Rishikesh dal Gange

Per 2 euro a notte mi godo un letto matrimoniale diviso con Fede e un bagno in camera non lindo, ma sufficientemente pulito per una doccia calda. Scendiamo in paese, dove dei dolci tintinnii di campane, noti di flauti e canti mistici afferrano di nuovo la mia attenzione. Un profumo di gelsomini e legna arsa penetra nelle narici. Attraversiamo uno stretto e traballante ponte sospeso sul fiume, affollato dalla gente del posto che porta con sé le proprie mercanzie. Non ci sono solo uomini lungo il ponte, ma anche un nero torello che passeggia con ordine in direzione opposta alla mia e scimmie grigie che saltano furtive sui fili sovrastanti.

I tintinnii si fanno più forti: “Ma da dove vengono?” chiedo. “Credo dai templi indù qui vicini; ma no guarda!” risponde Fede tutta eccitata mentre mi indica qualcosa lungo il fiume. “Pensavo che la puja fosse celebrata solo a Varanasi!” “Cos’è la puja?” “Niente meno che la preghiera induista celebrata lungo il fiume sacro.” Cerco di capire cosa mai possa essere una “celebrazione indù” e inizio a capire che le luci in lontananza sono in realtà fuochi di candele lasciate scorrere non so come sul fiume e che la foschia è invece vapore d’incenso. Voglio precipitarmi a vedere da vicino questa liturgia, ma appena scesa dal ponte la musica finisce. “Ormai è sera”, mi dice Fede condividendo la mia delusione. “Pazienza, siamo o non siamo finalmente sul fiume sacro per eccellenza?” Sorrido e scendo gli scaloni di granite rosa che costeggiano il Gange, baciato dagli ultimi fasci violacei del cielo. Una calma profonda si impossessa di me; sento solo scorrere le acque chete e insolite vibrazioni nell’aria sigillano il mio tempo. Per la prima volta la solitudine non mi impaurisce, ma mi circonda come una calda promessa di vita intensamente vissuta.

Osservo Manoj che nella penombra si avvicina al fiume; con la mano destra raccoglie dell’acqua per bagnarsi la testa. “Sarà questa la pratica di purificazione induista?” mi chiedo ripensando ai numerosi documentari visti dove masse di indiani entravano vestiti tutti insieme nel Gange, lavandosi dal capo ai piedi. Siamo tutti assorti nei nostri pensieri e nel comune silenzio un canuto santone drappeggiato di arancione si avvicina a Gabriela: “Mam, mi offriresti una sigaretta?” le chiede porgendo la mano sporca e inferma. Lei rimane un po’ interdetta: “Non fumo, mi spiace.” Fede si alza e gliene porge una; il santone le fa un cenno di ringraziamento con la testa e si allontana nel buio senza fiatare.

Sera di scoperte culinarie per me, che assaggio la cucina tibetana con i suoi enormi e gustosi ravioli grigliati; peccato che nelle vicinanze del fiume sacro non sia ammesso il consumo di carne e di alcool, questione già assodata dalla compagnia che si era quindi munita del necessario. Gabriela appare con le nostre Kingfisher e via ci rinchiudiamo tutti nella nostra stanza a cantare sbronzi canzoni in spagnolo, per la gioia degli altri ospiti dell’albergo.
La mattina seguente appaiono i nostri “vicini” di stanza che ci “studiano” con aria stranita. Dalla loro conversazione capisco che sono una coppia di spagnoli, che non capisce chi tra noi sia “lo spagnolo” che cantava a squarciagola le loro canzoni nazionali la notte prima. Manoj divertito si avvicina e inizia “Hola que tal?”. La coppia sta al gioco e sorpresa di sentire un indiano con tale padronanza della loro lingua si unisce alla conversazione.

Inizio a percepire il viaggio in un modo nuovo, non più inteso come da noi Occidentali momento di puro svago, magari in qualche fittizia località turistica dove l’unico pensiero del vacanziere medio è quella di appagare i propri sensi con comodità o, ancor peggio, in qualche villaggio turistico dove schizofrenica musica dance ti risuona costantemente nei timpani e dove vieni continuamente seccato per partecipare ad attività comuni. L’idea di viaggio è come prima cosa esplorazione di se stessi, dove l’esterno dialoga con i tuoi preconcetti, le tue idee o le tue sensazioni, al fine di creare quell’esperienza che ti concede non solo di allargare i tuoi orizzonti, ma di capire il tuo io più profondo. Decido di mettermi in gioco, di abbassare le mie barriere culturali e sociali per confrontarmi con l’Altro sconosciuto, nella ricerca di un arricchimento sensoriale e spirituale.

Ora di Rafting!!

Arriva il momento di affrontare la sfida, il motivo che ci ha spinti qui a Rishikesh: il rafting! Ci spingiamo nei monti, tra la selva indiana e i tornanti, fino ad arrivare al punto in cui il nostro cannotto aspetta. Indossati il casco e la giacca-salvagente, siamo pronti alla traversata. Gabriela è in estasi, lancia urletti di sfida e si mette in prima linea: “Erica, sei pronta?” mi chiede “Dai, dai, sono troppo curiosa!” “Allacciati bene il casco. Così più stretto!” “Ma serve davvero?”chiedo titubante. “Bhè se cadi su qualche roccia, non si sa mai” risponde con un filo di voce Emily, piccola e quasi muta Emily, con quella flemma inglese che non sopporto. “Sì, sì, preparati a salti di 30 metri!”continua Manoj “se cadi ti lasciamo qui…Eh eh eh!” “Pronti, ragazzi?” interrompe la guida, con la sua calma contagiosa. In realtà non so bene a cosa sto andando incontro, mi sono lasciata trascinare dall’euforia di tutti e l’adrenalina sale a dismisura. “Dovevo venire dall’altro capo del mondo per fare rafting! Io che volevo provarlo in Valle d’Aosta, con tutta l’attrezzatura e la sicurezza “Made in Welfare Western State”!”penso.

L’unica che si era categoricamente rifiutata è stata Fede. “Approcciarmi al Gange con il rafting? Non è mancanza di rispetto per noi neofiti?” aveva sentenziato la sera prima, decidendo di iscriversi a un corso di canto raga. Invece io voglio essere quella che accetta le sfide e non si tira indietro di fronte al pericolo! Decisa a tutto, afferro saldamente il remo, mentre il cannotto inizia il percorso lungo le acque. La coppia indi-messicana continua a lanciare urli di sfida al dio fiume, mentre io mi limito a studiare il percorso all’orizzonte: le rapide si avvicinano! “Restate seduti e remate velocemente!” intima la guida, così con adrenalinica furia agito il remo meglio che posso, mentre scivolo velocemente sopra rocce e fragorose cascatelle. “Yeah! Evvai! Il primo salto superato!” urla Gabriela e la guida risponde con un sorriso compiaciuto.

Il flusso veloce mi rapisce in scariche energetiche di media frequenza, come una corsa in moto o un giro sull’ottovolante. Qui il fiume è il padrone: ti invita a seguirlo, nel ritmo e nella quiete, ti avvisa con la sua bizzarra corrente o con il variare del suo onnipresente mormorio. Passati i primi momenti, mi accorgo del paradiso in cui la corrente ci trascina. Le curve morbide dei monti sono ricoperti da una foltissima e verde vegetazioni di arbusti, che termina solo lungo le sponde ricoperte da fine sabbia bianca, identica a quella caraibica; solo che al posto di paguri e conchiglie, le sponde sono popolate da mandrie di neri buceri e da gruppi di simpatiche scimmie grigie che si rincorrono. Nessun turista, nessun nuotante, scorgo solo un santone nel suo manto arancione che medita sulla punta di una roccia nel più limpido silenzio, interrotto alle volte dai richiami dei solitari cormorani neri che volano sul pelo dell’acqua e dal costante mormorio del fiume ora calmo.

“Se volete potete tuffarvi qui!” dice la guida e Gabriela, quasi prima della fine della frase, si leva i jeans e si tuffa nel Gange con un ardito tuffo. La sua testa riemerge con un sorriso scolpito che mi tranquillizza. “Dai!! Venite!!” ci chiama. “Bhè, se non ora, quando?” Mollo il remo e mi getto anch’io nelle acque con meno impeto della precedente, ma appena sommersa le acque gelide mi pungono con sottili lame: “Ahhh! Bastarda! E’ gelida!! Come cavolo fai a resistere così tranquillamente?” urlo. “Ma dai! Nuota, nuota, che ti scaldi!” Lei continua a sorridere beata, mentre io perdo in gran fretta la sensibilità dei piedi. Cerco di resistere ancora un po’, ma sconfitta rapidamente dalle acque, torno con fatica sul cannotto. “Ora capisco perché voi guide vi guardate bene dall’entrare in acqua!” dico al nepalese che ride sotto i baffi. Salita anche la coriacea messicana, riprendiamo il tragitto.

Il silenzio, così richiesto e gradito, ci accarezza e ci stupisce, mentre scorriamo nelle origini del sacro, nel ventre dell’India, avverto il tempo curvarsi e fermarsi. Immobile, il Gange scorre senza tempo, ampio e limpido specchia l’anima del cielo con i suoi arcani segreti. Anche il mio sangue scorre più lento, lo sento vibrare sotto i confini che si sfaldano tra queste pure acque. Pace, finalmente. Qui, sento di potermi bagnare due medesime volte, sento di trattenere questo istante per l’eterno. Ancora sospesi nella culla primordiale, il fragore delle rapide ci rimette in azione. Sorpassiamo con vivace forza diversi punti tortuosi, per ritrovarci ancora una volta nella calma del silente fiume, questa volta interrotta da un gruppo di bambini che gioca lungo la riva tra le madri occupate a lavare colorati panni. Per i bimbi diventa una gara salutarci nel modo più visibile possibile, saluti che ricambiamo con una spensieratezza che mi sorprende. I monti verdi trovano la loro anima gemella nel riflesso del fiume, mentre lascio che la mia pelle stessa diventi riflesso e antro per queste immobili acque.

Percorriamo 30 km, fino all’arrivo in paese. Siamo stremati, sento le mie braccia più pesanti che l’acciaio. La giornata non è però finita, ci prepariamo a festeggiare degnamente Gabriela che si è meritata il titolo della più tosta del gruppo. Nel nostro modesto albergo riappare sorridente Ganesh, il simpatico nepalese tuttofare che ci aiuta nel convincere i cuochi nel preparare una piccola torta di compleanno. Quasi unici clienti del ristorante, ci impossessiamo del locale cantando come al nostro solito tra le risate timide di Ganesh e i sorrisi compiaciuti di alcuni americani che ne approfittano per unirsi al tavolo. La torta al cioccolato viene accolta con gridolini di gioia da parte della festeggiata, che offre da bere dalla sua riserva personale. A parte per quei americani strafatti che tentano di abbordare senza risultato, serata ai confini o al centro del mondo in rara spensieratezza, cinque sconosciuti che condividono l’intensa piacevolezza del sentirsi vivi e liberi.

Ritorno al caos

L’indomani partiamo per New Delhi ancora distrutti per la traversata olimpionica, ma il viaggio si preannuncia ancor più lungo di ogni pronostico. Per le strade sembra che ci sia la festa del raccolto: decine di camion colmi di canne da zucchero essiccate riempiono talmente tanto le corsie, che uno di questi, soltanto per il gusto di procedere, viene addosso lateralmente alla nostra vettura rovinando la carrozzeria esterna. L’autista è furente, ma non ferma il camionista, né accenna a voler prendere i dati. Allibita, capisco che qui vince la legge del più forte. Ormai è sera e dalla penombra mi colpisce il fatto che nel traffico circolino alcuni camion che non hanno altro che l’intelaiatura, ovvero sono guidati senza nessuna carrozzeria così che gli indiani al volante paiono sopra a scheletri di brontosauri ruggenti. Restiamo bloccati altre due ore, finché appaiono dei fuochi d’artificio proprio sopra di noi. “Uffa, che stato di merda!” urla Manoj “Già, cinque ore fermi per un matrimonio del cavolo!” “Un matrimonio in strada? Saranno sfigatissimi! Con tutti gli accidenti che avranno ricevuto oggi!” commenta Fede. Dopo 12 ore di viaggio arriviamo in uno stato di semi-coscienza a New Delhi.
L’indomani sento Cecilia: “Hai saputo di Manoj?” “No, cosa?” “Gli sono venuti dentro, dopo che ha ripreso la sua macchina per tornare a casa.” “Come sta?” “ Lui? Solo qualche dolore al collo, ma la macchina è distrutta. Quei bastardi che lo hanno centrato non si sono neanche fermati per dargli soccorso!” 300 km in 12 ore e il botto finale, decisamente un rientro infernale.

Per altri avventurosi racconti, clicca qui.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *