India

Alla ricerca di una casa a New Delhi. Inizio dei lavori

Alla ricerca di una casa a New Delhi. Inizio dei lavori

Mucca placida sul marciapiede

Arriva il giorno di inizio tirocinio, con Cecilia al mio fianco sono così introdotta al luccicante mondo dell’ambasciata italiana: un covo dove tutti i peggiori vizi italiani sono più visibili perché in piccola scala. Attraverso un enorme giardino ben tenuto, entro in un edificio che pare appena uscito da una penna di Frank Lyoid Wright, ricoperto internamente da marmi specchianti. Subito salta all’occhio la numerosa presenza di indiani:  studenti in divisa che frequentano i numerosi corsi di italiano e dipendenti diretti, tutti sorridenti.  Salgo al primo piano dove conosco il resto dei colleghi: per la maggior parte  indiani, tranne la direttrice, l’addetta culturale e il bibliotecario; tutti italofoni, per mia gioia e sorpresa.

Sono ben accolta, ma quando osservo di non avere ancora trovato casa, scende il più totale silenzio. La direttrice (che insiste per farsi chiamare direttore), una piccola donna di mezza età, così magra che temo di spezzarla sfiorandola, mi liquida con un “Bhé, la troverai, no?” Attonita dalla totale mancanza di riguardo, mi rifugio in quella che sarà la mia grotta per i lunghi tre mesi: la biblioteca. Lì ricompare Davide, il bibliotecario, un ragazzo veneto poco più che ventenne, che mi illustra sul da farsi: “Chiedi cosa c’è da fare? Qui gli stagisti fanno poco o niente; se non chiedete espressamente, potete fare tranquillamente le ragnatele!” “Davvero?“ “Già,” continua Cecilia “le mie ex compagne si preparavano gli esami; io ho chiesto di insegnare e continuo ora a tenere corsi; qui se ne fregano di te, chi pensi che l’abbia mandata la macchina a prenderti in aeroporto?” “Sei stata tu?“ chiedo incredula. “Sì e hanno pure avuto da ridire sul fatto che ti aiutassi.” “Incominciamo bene! Grazie, sei stata un tesoro!”  Mentre Cecilia si allontana, io trovo il mio “da fare”: grazie alla visita imminente di niente poco di meno che Messer Romano Prodi, mi immergo nella preparazione di schede sui monumenti indiani in inglese.

Davide, a poco a poco, inizia a svelarsi: mi racconta di lavorare lì da circa un anno, di essersi così perdutamente innamorato dell’India  da aver lasciato famiglia, amici e Università per lavorare come bibliotecario per la somma di 300 euro mensili, oltre agli sporadici corsi che tiene in Istituto. “Me la cavo, vivo solo in un piccolo appartamento, costretto ad accontentarmi: ho il cesso turco e non ho l’acqua calda.” “Ma come fai a lavarti?” “Scaldo l’acqua sui fornelli, semplice!” “A proposito di casa, mi sai dare qualche dritta?” “Hai guardato sui siti? Lì trovi annunci vari, al momento non ho amici che hanno stanze o roba simile.” Inizia così la grande corsa per la casa. Sfoglio pagine e pagine di giornali e siti, chiedo in giro a tutti quelli che conosco, ma finisco sempre nelle mani di qualche agenzia e così, inizio a prendere i primi appuntamenti per un appartamento tutto per me, da condividere eventualmente con l’altra stagista in arrivo.

I primi giri serali nel traffico della capitale

Alle 18.00 la città è già avvolta nel buio, uscita dal quartiere dell’ambasciata scompaiono i check point e i lampioni elettrici sembrano una rarità fuori dalle poche strade principali. Nella macchina dell’agente immobiliare, così gentile da essere venuto a prendermi all’uscita dell’Istituto, mi sento a disagio sia per la totale estraneità con il presente, sia per quello che appare ai miei occhi: centinaia di persone che lavorano o passeggiano ai lati dei marciapiedi, con mansioni che mi trasportano nel tempo, in secoli sconosciuti.

Vedo un settantenne canuto stirare su una grossa pietra intagliata con un ferro da stiro a carbone tutto arrugginito;  accanto, su un palo di legno d’occasione, tre camicie così ben stirate da sembrare appena uscite da una moderna lavanderia; vicino, un altro vecchio siede a terra su un misero straccio davanti alla sua mercanzia, ovvero un cumulo di arachidi fresche. Attorno bancarelle di ogni genere diffondono nell’aria odori selvaggi e sconosciuti, i colori accesi delle mercanzie e dei sari delle passanti sembrano iridescenti alla luce fioca delle poca illuminazione composta da infuocate palle di luce sopra la testa dei deambulanti, sospese su una ragnatela di fili illegali, aggrovigliati ai pali della luce principali. Sopra, la notte ingoia tutto, compreso il mio senso di percezione.

Ancor più mi strabilia l’inimmaginabile e schizofrenico traffico metropolitano. Attraverso strade nodose e strette, macchine nuove o fatiscenti strombazzano divincolandosi tra risciò a motori o trainati da biciclette arrugginite; talvolta appaiono calessi colmi di canne da zucchero essiccate o cornute vacche magrissime che intasano il già singhiozzante traffico. Non esistono leggi: chi taglia la strada, chi va contro mano, chi sorpassa in curva e se ne frega del rosso; tutto permesso a condizione dell’uso del clacson, che dà come risultato la sensazione di essere in un rave improvvisato e asfissiante, mentre sbigottita mi tengo stretta a qualsiasi cosa di stabile nella macchina.

Resto colpita da quel qualcosa di intuibile ma invisibile che orchestra tutto questo movimento, come se un’infantile entità superiore tenesse i fili di ogni pezzo e si divertisse a giocare senza danno: un motorino ci taglia la strada, l’agente frena ma è troppo tardi; “Oddio! Mo’ l’ho prendiamo in pieno!” e mi vedo già addosso alla bicicletta di un risciò; ma l’agente immobiliare sterza velocemente mentre il conducente gira di 90 gradi la ruota del suo mezzo: il filo è stato tirato, l’incidente evitato per un soffio.

“L’ospite qui in India è sacro”

La casa è graziosa, anche se costosa per le mia tasche; ma il quartiere risulta essere lontanissimo dal lavoro, così procedo con gli appuntamenti e mi incontro con il secondo agente immobiliare, un robusto e barbuto sikh trentenne che insiste per offrirmi qualcosa da mangiare. Anche se un po’ schifata dal cibo delle bancarelle mi sembra scortese rifiutare, così gusto a sorpresa il primo “hot dog indiano”, una specie di piccola pita con all’interno piccanti pezzi di pollo e salse.

Mam, dalla telefonata non ho capito cosa cerchi, come posso aiutarti?” inizia il sikh con un forte inglese maccheronico. “Cerco un affitto che non superi le 10.000 rupie, vicino al quartiere di Chanakyapuri”. “Uhm, capisco, al momento non ho offerte, ma ti aiuterò.” Un po’ sorpresa dal fatto che non avesse capito al telefono cosa cercassi e che mi avesse comunque dato appuntamento, rimango colpita dal suo senso di ospitalità verso una totale sconosciuta. Rimangono impresse le sue parole mentre insiste per riaccompagnarmi fino al lontano ostello: “Può darsi che non ci vedremo più, perché non so se troverò ciò che cerchi, ma sai perché ti aiuto?” “Perché?” “Perché come indiano ho fede e per il mio Lord Satnam l’ospite è sacro,” mi risponde con tono pacato e dolce mentre mi mostra l’immagine del suo dio appeso allo specchietto retrovisore “l’India è il paese migliore del mondo, perché il nostro Dio ci protegge e continuerà a farlo, finché avremo cura del nostro prossimo.” Una delle domande sospese dall’inizio del mio viaggio era capire il significato  della famosa spiritualità indiana, significato che non  trovo nei templi finora guardati da lontano o in qualche ashram di yoga, ma nelle parole di cortesia e fede del sikh di cui purtroppo ho scordato il nome.

La studentessa di nome Mary che detesta le caste

Io e Mary

La stanza dell’ostello è un crocevia di ospiti variegatissime. Conosco così Mary, una ragazza di Jaipur dagli occhi di taglio orientale, che mi racconta della sua vita, divisa tra la facoltà di Medicina e la difficile lotta di emancipazione femminile indiana. “Sono fortunata, sai? I miei mi lasciano venire fin qui da sola, anche perché domani devo dare l’esame di chirurgia.” “Ma non esiste una facoltà di Medicina a Jaipur?” “Questa di New Delhi è migliore, inoltre così posso incontrare il mio ragazzo, che non vedo quasi mai.” “L’hai conosciuto in Facoltà?” “ Si, ma appartiene a una casta inferiore alla mia, quindi la gente parla.” “Perché, scusa, siete obbligati a sposarvi tra di voi?” “E’ stato così per millenni, ma sono cresciuta in una famiglia liberale che mi ha sostenuta nelle scelte e non è contraria al mio matrimonio. Sai, ho già 28 anni, qui non è normale essere ancora nubili alla mia età.” “Nel mio paese il matrimonio non è più sentito da noi donne come qualcosa di necessario alla felicità o al sostentamento materiale. Sei una ragazza indipendente, con una carriera che ti aspetta, quindi accetta un consiglio di cuore: non sposarti perché ti senti in dovere di farlo!” “No, tranquilla, voglio prima laurearmi! Ti confido comunque che sono innamorata, anche se non sopporto la sua famiglia.” “Come mai?” “Vuole la dote!” “Esiste ancora la dote qui?!!” “Già, anche se è stata annullata dalla legge, continua a esistere. Io mi rifiuto di pagarla; come la mia famiglia, tanto più che lui è di casta inferiore alla mia! In Università abbiamo fatto una petizione in cui gli uomini che aderiscono dichiarano di non chiedere nessuna dote alla futura moglie.” Se da una parte sento Mary come una giovane guerriera sociale, dall’altra avverto l’ombra della tradizione che in qualche modo la ancora ancora nelle sue scelte e lotte.

Mi corico e sogno leggermente, nel freddo dell’aspro e vibrante stanzone; mentre dei colpi alla porta mi svegliano. Vado ad aprire, dato che le chiavi sono in mia custodia. Dalla penombra mi appare una tipa rossa, alta e carica di bagagli che sussurra: “Erica sei tu?” Le rispondo mezzo addormentata: “Ciao. Federica?” “Si! Finalmente sono arrivata!” La seconda stagista irrompe nella fredda notte orientale e mi tempesta di domande: “Com’è il lavoro nell’Istituto? Hai partecipato alla mostra? C’è la pula qui attorno?” Io, che sono ancora nel mondo dei sogni, le mostro il letto che le ho tenuto da parte e le bisbiglio già distesa tra le lenzuola: “Sì, sì…domani vedrai..domani…” e ripiombo nei sogni lasciandola, credo, un po’ interdetta.

Io e Fede

Con Fede mi sento un po’ la mamma chioccia, visto che l’ho preceduta di circa una settimana. Così le spiego dove fare colazione, dov’è l’Istituto e, cosa più importante, il punto delle mie ricerche in materia CASA; ma lei pare essere con la testa su un altro pianeta. Ci incamminiamo verso l’Istituto, tra il brusio di pappagalli e corvi. “Ma qui ci fissano tutti!” osserva Federica. “Hai notato? All’inizio lo trovavo insopportabile, neanche fossi una star, ora non ci faccio quasi più caso.” “Ma perché? Mica siamo le prima bianche che vedono!” “Bah! Forse perché non prendiamo un taxi, ma camminiamo tra loro senza tirarcela come il resto della gente che lavora in questa zona.”

Passiamo davanti alla stazione dei tassisti che come al solito mi salutano e ai vari check point con le guardie appostate nelle tende (dove passano la notte), mentre si scaldano il chai su due tronchi inceneriti. Sbircio Federica, mentre si asciuga frettolosamente una lacrima. “Ho sottovalutato la sua sensibilità” penso. In Istituto incontriamo Cecilia, con cui andiamo nell’ora di pranzo a casa di una grossa e affabile indiana di mezza età che si proclama essere l’estetista di tutta l’ambasciata. “Ma dove andiamo?“ chiedo a Cecilia. ”A casa di Meehpa, affitta una camera sopra il suo appartamento. Voi siete ancora alla ricerca, no?” Così ci spostiamo in un quartiere verso il Nord-Est della città; io e Fede rimaniamo allibite davanti ai cumuli di pattumiera che si estendono accanto alla strada principali, ma ciò che ci ferisce maggiormente sono quelle piccole braccia e nude gambe di bimbi che corrono e cercano in mezzo a quel putridume un qualcosa che non sta né in cielo, né in terra.

Arriviamo a casa di Meehpa, in un quartiere residenziale, dopotutto. Altri bambini ben vestiti ci corrono incontro festosi e ci portano ai piani superiori. Le case mi ricordano i cortili milanesi di fine 800 dove le porte e le finestre erano affacciati ai balconi dei cortili interni, dove tutti sapevano tutto di tutti. Meehpa ci presenta orgogliosa la sua famiglia presente composta dalla nuora e dai due nipoti più giovani. Insiste perché ci fermiamo a pranzo, così fa portare un enorme piatto di riso e dahl di fagioli. All’inizio penso che il piatto sia per una sola persona, ma scorgendo le tre forchette capisco che lì è abitudine cibarsi da un unico piatto. Divertite e affamate ci dividiamo la pietanza, contente che non sia troppo piccante. Siamo al centro della curiosità del cortile: diversi bambini affacciati ai balconi ci osservano e ridono, mentre l’estetista si rimpettisce alla nostra presenza; normale atteggiamento da piccola borghesia, dato che avere alla propria tavola dei bianchi è un segno di distinzione sociale.

“Non vai a  scuola, piccolo?”
Riso e fagioli

Per servire il chai, Meehpa ci conduce nel salotto del piano superiore, dove noto un bambino vestito con una camicia lisa e bucata. Mi accorgo che sia la nuora che la suocera si comportano in modo diverso con lui, con toni più duri e distaccati; quando il timido bimbo riappare con un vassoio colmo di tazze bollenti in mano capisco: è il maggiordomo della casa. Un bambino che ha al massimo 9 anni! Il mio sguardo si incontra con quello di Cecilia. “Ma va a scuola questo bel bimbo?” chiede a Meehpa. “Scuola? No, deve lavorare; è già tanto che gli abbiamo dato un tetto, altrimenti sarebbe in mezzo alla strada.” Il disagio aumenta, non sento di poter condividere né la mentalità, né il chai con questa famiglia. Anche Federica guarda con durezza la padrona di casa, così Cecilia capisce l’atmosfera e cerca di tagliare corto. La stanza è molto spartana, ma non incontra il nostro interesse visto la distanza dall’Istituto, così torniamo indietro scortate ancora una volta dalla cortese estetista.

Interrogo Cecilia circa la situazione dei bambini indiani. “Quello che hai appena visto è normale qui. Il tasso di analfabetismo è del 50%. La maggior parte dei bambini non ha il diritto all’istruzione. Tantissimi sono orfani e vivono per strada, altri trovano un misero lavoro che li sfama. Certo quel bambino ha il diritto di studiare, ma le cose qui non sono semplici come si crede. Se non fosse in quella casa come maggiordomo, dove sarebbe ora? Probabilmente in strada, affamato, ad allargare le fila di quelli costretti a chiedere la carità, sotto qualche sfruttatore bastardo; magari con mutilazioni inflitte di proposito per impietosire la gente, ergo per guadagnare più soldi.” “In questi giorni ho visto un sacco di negozi con almeno un bambino-lavoratore all’interno; quindi i negozianti li “assumono” in tenera età e li insegnano un lavoro?” chiedo. “Sì, spesso è così.”

Nei panni di una dea danzante

La giornata non è finita; Cecilia ci porta nel centro culturale di New Delhi, dove una sua studente recita e balla in una delle danze tradizionali. Trovo fantastico il fatto che tutte queste rappresentazioni, concerti e mostre siano gratuite; resta però costante il secondo lato del medaglione: nel pubblico infatti non scorgo nessuno di ceto sociale basso, solo gente ben vestita e selezionata all’ingresso dalla polizia, con il metal detector sempre attivo. Sprofondata nelle poltrone rosse del teatro mi lascio rapire dall’eleganza ed equilibrio della danza, dai gesti carichi di arcani significati dei ballerini ricoperti di infuocati colori e dalle nuove note, monofoniche e quasi trascendenti, di strumenti prima sconosciuti, come le tabla, il sitar o la veena. La danza rappresenta un racconto sacro induista in cui una principessa ripudiata dal regnante viene vendicata da una dea della giustizia che trasforma l’amato in un paria. Umiliato e affamato, riprende la consorte con sé e la maledizione viene tolta. Certo il racconto non brilla per originalità; ma il fascino dei movimenti, della forte mimica dei ballerini e il misticismo della musica mi emozionano alquanto.

La ricerca della casa prosegue; propongo nuovi appartamenti a Federica, che si mostra recalcitrante; stressata di stare in ostello scopro che non è possibile soggiornarvi per più di una settimana di seguito; così sono costretta a prendere i bagagli e trovare un giaciglio per la notte seguente. Una stagista dell’ambasciata mi ospita nell’appartamento di un’olandese che affitta stanze a occidentali. Per una sera sono contenta di dormire in una camera tutta mia, colma di mobili e con una toilette piena di confort in cui mi abbandono a un lungo e caldo bagno. Il giorno seguente torno controvoglia nell’ostello. Io e Fede continuiamo a discutere per la questione casa, finché mi confida un suo possibile rientro anticipato in Italia. Decido pertanto di dividere le nostre strade nella asfissiante ricerca e mi ritrovo punto a capo, sempre più disperata!

Con la convinzione che i veri amici ti seguono ovunque, chiamo un mio vecchio e fidato amico a Bruxelles, che è in contatto con una giornalista parigina spesso in viaggio in Oriente. Questa midà il numero di telefono di una ragazza che studia danza proprio a New Delhi, che guarda caso ha una amica indiana che affitta una camera. Il giorno dopo  piombo a vedere l’oggetto del desiderio: è illuminata, arredata e in un appartamento abbastanza vicino, in Lajpat Nagar. La prendo subito, per 7500 rupie (circa 115 euro mensili); allibita dal fatto che nell’affitto sia incluso anche il vitto con cuoca e donna delle pulizie.

La proprietaria vive in un grosso appartamento sottostante, ovviamente con  tutta la sua famiglia allargata composta dal marito, due bambini, la suocera, la cognata e circa tre domestici. Parla velocemente e studia ogni mio movimento, tratta i servants con durezza e si vanta delle scuole di lusso a cui ha iscritto i suoi due figli. Spero di aver poco a che fare con lei. Con aria da snob mi presenta la mia compagna di casa, Mehak, una sikh di ventisei anni, che mi osserva dubbiosa con i suoi bellissimi ed enormi occhi neri. La proprietaria le dice che sarò la nuova coinquilina, lei annuisce sorridente; ma capisco che la mia origine occidentale la innervosisce. Io cerco di venirle incontro lasciandole la stanza a  disposizione, per ospitare la sua famiglia in visita. Lei ringrazia e sembra più rilassata, come me: dopo due settimane finalmente ho trovato casa!

Qui il racconto del mio arrivo a New Delhi.

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