Arrivo a Varanasi, la città sacra
Varanasi, la città sacra
Il mio viaggio ben presto si concluderà, pensiero che crea una nuvola malinconica costantemente sulla mia testa. Organizzo l’ultima esplorazione nel cuore sacro del sub continente, Varanasi. “L’India è distruzione” diceva qualcuno; non potevo non essere d’accordo dopo tre mesi passati a fare i conti con i miei demoni tra le fagocitanti incomprensibili folle e le moltitudini di divinità giocose e sadiche scontrate lungo il mio cammino.
Dovevo concludere proprio lì il mio viaggio, in quella che si pensa essere la città più antica del mondo, dove i morti ascendono direttamente al Nirvana, dove il Gange rigurgita ceneri e benedice i vivi mentre una delle sue sponde resta spoglia e disabitata perché creduta popolata dai demoni.
Arrivo con un comodo e tranquillo volo interno; prendo un taxi alla ricerca di un indirizzo dove vive una ragazza italiana conosciuta in Istituto che si era offerta di ospitarmi. Erica (proprio come me!) vive qui da tre anni; insegna Lingua Italiana in un Istituto scolastico privato per pochi spiccioli e parla un hindi perfetto.
La trovo a fatica, ma sono contenta di restare da lei: abita all’ultimo piano di una palazzina nelle vicinanze del Gange; ogni stanza è aperta verso l’ampia terrazza dove è solita cenare su una stuola e dormire all’aperto. Prontamente mi offre il suo letto, visto che preferisce restare fuori dove circola più aria. Erica ospita anche una donna francese che vive tra l’India, la Thailandia e il Vietnam, non si sa facendo bene che cosa.
La messa della sera sul Gange
Non resisto a lungo chiusa in casa quando ho tutta la città da esplorare; esco già verso sera per dirigermi proprio sul fiume sacro. Sono fortunata, assisto alla preghiera della sera e resto folgorata da ciò che mi circonda: da una gigantesca cassa esce allegra musica votiva mentre una piccola folla ascolta e canta in coro.
Le tenebre scese veloci mi proteggono a stento dalla curiosità dei locali, tanto che subito una ragazza mi offre di comprare una candela su una sgargiante ciotola impermeabile. Osservo giovani donne in sari offrire queste candele alle nere acque del Gange: uno sciame di fiaccole tintinnanti diparte dalla sponda per prendere lentamente il largo.
Decido di imitarle; la mia candela arancione si allontana in solitudine; guardo le fiamme tremolanti ormai scomparire verso le vuota e oscura sponda opposta.
Dalla mia posizione iniziano i ghat: le terrazze a gradoni che fiancheggiano la riva, da dove i devoti e gli abitanti scendono verso il fiume sia per i bagni considerati purificatori, sia per le attività quotidiane, come il lavaggio dei sari. Alcune luci artificiali illuminano le mura vicine, ma la loro scarsità non permette una ampia visione all’orizzonte.
Decido di sedermi su uno dei gradoni; l’atmosfera è pesante, l’aria è satura non solo dalla costante afa che non lascia tregua neanche dopo il tramonto, ma da vibrazioni sconosciute e inquietanti che mi lasciano con domande senza risposta. La mia ricerca di solitudine è come al solito interrotta dai ragazzi del posto che sorridendo cercano di attaccare bottone. Ormai sono stanca e senza rivolgere lo sguardo ad alcuno mi alzo per tornare dalla mia amica, pensando alla tranquillità di quella terrazza.
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