Arte e CittàIndia

Vita da indiana. La mia quotidiana convivenza a New Delhi

Bazar nel mio quartiere

Casa dolce casa…

Nella mia nuova e semplice stanza, ammobiliata con un armadio a quattro ante e due letti di legno massiccio con quattro materassini spessi circa tre centimetri l’uno, prende spazio la mia quotidianità che cerca di meglio adattarsi alla nuova vita.

Godo di un bagno tutto mio, all’indiana chiaramente: il tubo di scarico del lavandino è direttamente aperto sul pavimento, che ha a sua volta uno scarico posto direttamente al centro. Al posto della doccia c’è invece un secchio con una caraffa; mi adatto quindi a lavarmi riempiendo il secchio d’acqua calda che mi rovescio addosso con l’apposita caraffa di plastica. Sebbene possa sembrare scomodo, questa nuova abitudine mi riporta ai giochi d’acqua d’infanzia: sono libera di spruzzare ovunque e ho un ampio spazio a disposizione per le secchiate che mi verso ilare sulla pelle.

  Scopro che la carta igienica è uno stilema occidentale: ogni bagno ha accanto al water un rubinetto a muro al posto del nostro amato rotolo bianco di cui io decido di non poter fare a meno, soprattutto visti i numerosi attacchi di dissenteria cui sono soggetta.

Convivere con una occidentale?!?

La prima sera che rientro dall’ Istituto trovo la casa vuota e la cena pronta, così mi gusto affamata la cucina casalinga della ancora sconosciuta cuoca nel classico piatto di metallo: dahl, riso basmati e spinaci con patate, piccantissime.

“Se devo stare qui, voglio riuscire a mangiare come loro” penso con gli occhi lacrimanti e divorando pezzi di chapati per calmare la bocca in fiamme. Nel frattempo rientra Mehak che mi studia con interesse. Nonostante lo stomaco colmo e bollente decido di fare il bis.

Davanti alla mia abbuffata la nuova coinquilina strabuzza gli occhi; mi  accorgo tardi di aver mangiato anche la sua parte; così scusandomi divido il cibo restante con lei.

“Oh scusa, vedendo l’ora così tarda pensavo che avessi già cenato”.

“Non ti preoccupare, ma io finisco sempre verso quest’ora di lavorare” mi risponde dolcemente.

“Lavori fino alle 21.00?”chiedo meravigliata.

Lei risponde ciondolando la testa all’indiana, ma tronca la conversazione sedendosi sul divano per guardare con la massima attenzione la partita di cricket in TV. Mi sforzo di farle compagnia cercando di capire il senso di uno dei giochi più noiosi mai visti, ma anche il più popolare di tutta l’India, da buona eredità inglese.

“Vai, vai, vai! Challo, challo, challo!” inizia a urlare infervorata per terminare in “Merda!”, mentre una pallina vola da qualche indefinita parte. “Manco fosse Milan contro Manchester!” penso e durante la pubblicità oso chiederle: “Ma cos’è che esattamente ti piace del gioco?”

Lei arrossisce leggermente: “Sono un’appassionata, come tutta la mia famiglia e poi, quel tipo che lanciava la palla è il mio ragazzo.”

“Cosa? Tu sei insieme a un giocatore di serie A? Wow!” mentre dentro di me penso: “Cavolo! Non è una velina, né una modella, ma una banchiera! Decisamente più avanti rispetto ai modelli sociali italiani!”

“Ebbene si,” continua “ma lo vedo pochissimo perché è sempre in allenamento o all’estero.” La sua ingenua espressione di vergine innamorata dagli occhi malinconici ferma tutto il mio cinismo di donna europea, che porta con leggerezza le sue cicatrici amorose di vecchia e nuova data.  Mehak, fragile ragazza di ventisei anni, conserva ancora quell’innocenza adolescenziale che in qualche modo invidio.  

Tre e più religioni sotto lo stesso tetto

Conosco finalmente l’altra ragazza con cui dividerò l’appartamento: Nadeshda, un’occhialuta e riservata ragazza della mia età, caporedattore di un giornale locale. “Sarà interessante questa convivenza” penso, “una sikh, una mussulmana e una cristiana sotto lo stesso tetto.”

Ottimista nelle novità, non ho fatto ancora i conti con le nostre enormi differenze di costume e di mentalità. Mi ritrovo così senza il minimo della privacy: a ogni ora del giorno le ragazze e la figlia della vicina mi piombano in camera senza bussare, ma questo è niente in confronto alle abitudini delle famiglie borghesi indiane. La prima mattina lavorativa mi entra in camera una minuta signora cinquant’enne avvolta in un sari sgargiante con una scopa di paglia in mano; sebbene ancora addormentata riconosco la donna delle pulizie che avevo intravvisto giorni prima sulle scale.

“Ma pulisce a quest’ora e con me in camera?” Con gli occhi mezzi aperti le chiedo “Buongiorno Mam, cosa deve fare?” Lei mi sorride e senza fiatare si china per scopare. “Questa non parla inglese” penso tra me, lasciandola fare. Una volta alzata, vedo che le mie due coinquiline dormono ancora beatamente in mezzo al trambusto mattutino.

Osservo l’affaccendata signora pulire a mani nude il pavimento sempre chinata a terra, visto che qui la scopa è sprovvista di bastone, mentre i suoi bracciali e le sue grosse cavigliere la accompagnano argentine ad ogni movenza. I suoi rapidi movimenti di gambe e la sua esile corporatura mi ricordano i passi di un ranocchio brillo, che cerca di catturare un moscerino senza successo.

Alle 8.00 arriva un’altra domestica, una giovane e robusta indiana dallo sguardo timido e dolce e dai capelli castani accuratamente raccolti un una lunga e spessa treccia. La ritrovo in cucina alle prese con i fornelli. “Namaste, come ti chiami?” le chiedo speranzosa in una risposta.

“Renu” sillaba con un timido sorriso.

“Almeno lei sembra parlare un po’ l’inglese” penso, mentre mi preparo il the sull’unico fuoco rimasto libero. Le ragazze si svegliano e si posizionano sul tavolo, mentre Renu porta loro il chai bollente; nessuna di loro la considera né la ringrazia, entrambe continuano la lettura del giornale che come ogni mattina arriva sotto la porta di casa.

Delusa dalla mancanza di educazione delle mie coinquiline e nauseata dal servilismo di matrice ottocentesca, vedo Renu di fronte a me con una tazza di the caldo in mano.

“Tieni” sussurra con lo sguardo basso.

“Ti prego, non farlo più.” Tutte  e tre mi fissano stupite. “Non voglio essere servita” le spiego sorridendo, mentre il mio stomaco ribolle.

“Perché no? La paghi anche tu per servirti” esclama tra stupore e noia Nadesha.

“Mi piace fare da me, sono abituata così!” taglio corto e osservo Renu che contraccambia il mio sguardo con sollievo.  

Uccello mattiniero che impara a cucinare

Mi abituo pian piano alla vita indiana mattutina, che mi impedisce di dormire a lungo: dalle 6.00 inizia il concerto mattutino di uccelli e clacson, mentre accompagnati dagli scampanellii delle biciclette i venditori del quartiere urlano: “Latte fresco!”,”Vetro!”,“Cerco carta!” e via dicendo.

Ogni mattina entrano in casa ben due donne delle pulizie: la prima all’alba per lavare solo i bagni, una fuori casta condannata a vivere del mestiere che nessuno vuole fare, e la minuta Laksmi  per pulire il resto della casa. Mi diverte osservare come Laksmi studi stranita i miei movimenti e i miei vestiti che quasi ogni mattina lava a mano, sempre seduta in stile ranocchio, assieme al bucato di tutte in un grosso catino di acqua fredda.

Come nella maggior parte delle case indiane, sono le domestiche che “fanno da” lavatrice. La sua magrezza mi preoccupa, così prendo l’abitudine di offrirle qualcosa, soprattutto cioccolatini che conservo con cura nel nostro frigo. Il suo sguardo  indagatore diventa pian piano sempre più sorridente e indifeso, tanto che nei suoi occhi grigi non leggo più la diffidenza iniziale.

Renu invece diventa a sua insaputa la mia insegnante di cucina indiana. La studio appena torno a casa la sera, mentre impasta a mano il pane. La nostra cucina non ha nessun forno, solo due fuochi elettrici disposti sopra un normale mobile da cucina con lavello e il frigorifero. Sotto ai fornelli abbiamo un sacco colmo di 2 kg di farina integrale e una dispensa piena di cipolle, zenzero, patate, legumi di vario tipo e barattoli di spezie.

Ogni giorno Renu impasta la farina che spiana fino a creare piadine, disposte infine sopra i fornelli. Scopro così che la pasta si gonfia come un palloncino per poi decrescere a fine cottura: il nostro chapati quotidiano. Dalla cuoca imparo a cucinare il dhal e molte verdure, dosando le spezie nell’olio di semi bollente.

La cucina hindi è essenzialmente vegetariana, così priva di formaggi stagionati elaborati con il caglio di origine animale. Il formaggio indiano è solo fresco, simile alla nostra ricotta. Visto che niente viene sprecato, osservo Renu che ricicla il latte rimasto per fare il formaggio usando solo il succo di limone.

Una sera, decisa a deliziare i palati delle mie coinquiline con la cucina italiana, sforno pasta con pomodoro e cacio, donatomi da un insegnante dell’Istituto. Le ragazze studiano serie il piatto e iniziano a mangiare lentamente: “Uhm, buono” “Si, sì, buono”.

Io divoro la mia pasta con nostalgico gusto, ma vedo che i due restanti piatti vengono lasciati mezzi pieni. “Sicure che vi piaccia?” chiedo.

“Si, si.” Mai chiedere a un indiano un parere aspettandosi sincerità,  giammai oserebbero offenderti; lezione che imparo guardando con rammarico lo spreco di cacio nei  loro piatti.

Let me be…

Mehak è decisa a prendersi cura di me; cosa che riguarda sia l’approvvigionamento che la mia vita in India. “Vieni che ti mostro dove comprare quello che ti serve” e mi trascina nella drogheria all’angolo del nostro cortile.  “Namaste uncle! Mi dai il pane-toast e un sacco di fagioli?” “Si, Mam” risponde a gran voce il panciuto negoziante cinquant’enne il cui sorriso sotto ai due enormi baffi grigi mi trasmette un non so che di comico.

“Vuoi qualcosa?”mi chiede Mehak.

“Sì, è finito il burro e magari anche del succo di mango se c’è, grazie.” Svoltato l’angolo le chiedo: “Ma lo chiami uncle?”

“Sì, lo so che suona strano; ma da noi si usa così, se vai spesso a comprare da quella persona.”

Nei giorni seguenti l’uncle in questione mi prende in simpatia e mi promette: “Tu, Mam, hindi in due settimane!” Così ogni volta che mi vede, il tizio inizia a sparare a raffica una serie di nomi in hindi di cui non capisco assolutamente nulla e a cui rispondo con cenni di testa divertita. Credo che il mio sorriso sia contagioso, visto che lascio sempre uncle con un’aria soddisfatta.

Le cure di Mehak continuano nell’offrirmi una calda coperta e riscaldamento elettrico per le notti indiane che si ostinano a restare fredde e nelle continue chiamate serali, del tipo: “Erica dove sei? Come mai non sei a casa? Sono già le 10.00 di sera!”

Se fossi stata in Italia, non sarei riuscita a trattenere una risposta seccante, del tipo: “Dove sono? Sono affari miei!” Visto che mi sento in qualche modo dipendente da loro e sorpresa da tante attenzioni, rispondo placida con frasi del tipo: “Non ti preoccupare, sono con i miei amici, tornerò più tardi.”

Per fortuna, Nadeshda sembra essere un po’ più avvezza alla vita e il giorno dopo mi confida: “Ho detto a Mehak di non preoccuparsi per te; sai lei non è abituata a tanta indipendenza e tende a essere un po’ ansiosa.”

“Ti ringrazio. Non era mia intenzione farla preoccupare, ma per me è una cosa normale avere una vita sociale, soprattutto dopo il lavoro.” L’ingenuità e la dolcezza di Mehak sono bilanciate dalla serietà e concretezza di Nadeshda, differenze che credo dovute anche alle diverse radici religiose. Entrambe sembrano ligie a una stretta morale che le impedisce di uscire in locali, di bere alcolici o di portare a casa i propri ragazzi, oltre all’osservanza di una dieta senza carne per una e senza  carne di maiale per l’altra.

Con aria intellettuale Nadeshda fuma spesso davanti al suo computer portatile mentre chatta con il suo boyfriend espatriato in America o passa le serate in compagnia di un amico, che in mia presenza pare spesso imbarazzato.  La redattrice pare più conscia di come il mondo giri, quindi il suo sguardo serio e indagatore ha perso quell’innocenza che invece Mehak mantiene.

Bollywood love

Tornando a casa una sera, trovo le mie coinquiline immerse in una discussione. “Oh Erica” sospira Nadesha “quel che si dice la donna giusta al momento giusto!”

“Che succede?” chiedo.

“Cerca di far capire tu, donna occidentale,  che non esiste il principe azzurro e il lieto fine dei film bollywoodiani nella vita reale a questa gran  sognatrice!”

“Uhm! Ancora problemi con il fuoriclasse?”chiedo a Mehak che resta a capo chinato con lo sguardo perso nel vuoto.

“No, non saprei. Insomma, non so che fare” risponde con aria alquanto depressa.

Guardo Nadeshda che scuote il capo e inizia: “Il caro giocatore è finalmente in città e ha mandato in aria l’ennesimo appuntamento, dopo tre mesi che non si vedono!” Rivolta a Mehak continua: “Non ne vale la pena, svegliati!” Mehak non risponde.

“So che non è facile, amare e rispettare se stesse,” inizio “ma guardati: una ragazza così bella, solare e intelligente merita più di uno che preferisce rincorrere una pallina piuttosto che perdersi nei tuoi occhi.”

“Ma lui mi chiede tempo, per lui è un periodo difficile, sai?” mi risponde. “Cioè?” chiedo cinicamente.

“Non è  stato ancora confermato nella nazionale. Ci tiene tanto” afferma laconica.

Avrei voluto dire quello che pensavo veramente, ovvero che il tizio in questione era probabilmente a bere whisky in qualche pub alla moda tra le braccia di qualche prostituta; visto che l’indiano medio non conosce il significato di fedeltà e rispetto per il sesso femminile.

Schifata dall’ipocrisia di base nelle relazioni tra indiani, che prevede la donna vergine e l’uomo di casta medio-alta libero, riesco solo a dire è: “Ma chi se ne frega! Tu sei molto più importante di qualche fottuto allenamento! Che senso ha avere un uomo invisibile al tuo fianco? Si interessa lui ai tuoi bisogni? Ti ripeto, tu meriti un uomo che muoia dalla voglia di vederti, anche se meno famoso o ricco del raccogli-palline!”

Lo sguardo di Mehak si alza per diventare d’un tratto più vitale. “Lo pensi davvero?” mi chiede. “Certo!” “Non sai quante energie ho messo in questo rapporto, nel pensiero di sposarmi; non mi posso accettare single ancora una volta.”

“Cara, non c’è niente di peggio che stare con l’uomo sbagliato” rispondo flemmaticamente.

“Oh, finalmente una donna che sa quel che vuole!” commenta Nadeshda. “Sarà, ma il pensiero di rimanere sola mi distrugge; oltre alle discussioni che seguiranno in famiglia”si lamenta Mehak.

“Perché dici così?” le chiedo. “Perché i miei genitori hanno rispettato il mio volere finora, non intromettendosi nella vita privata. La maggior parte delle famiglie inizia a presentarti possibili mariti anche prima dei 18 anni”mi risponde.

“E allora, visto che i tuoi hanno creduto in te, non sprecare la loro fiducia. Non dico di non sposarti, ma di aspettare un uomo che ti ami per quello che sei”concludo.

“Bah, voglio dargli ancora un po’di tempo, magari cambia!” mi sussurra convinta. Dopo quest’ultima uscita rinuncio a ogni ulteriore intervento. Io e Nadeshda, che dimostra ancora una volta la sua concretezza, ci guardiamo complici e lasciamo l’ingenua Mehak alle sue decisioni; si sa che in amore alle volte è necessario rompersi le ossa. 

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