Lungo i Ghat di Varanasi
Alba sui ghat di Varanasi
Mi sveglio alle 4 della mattina: i canti dei monaci del minuscolo tempio adiacente mi raggiungono come un profondo richiamo dall’Universo; “Ohm nama Shiva” ripetono lentamente in coro senza sosta. Come colta da un elettrico brivido, mi alzo e appena le prime luci rischiarano il cielo esco. Sono circa le 5 della mattina; raggiungo veloce i Ghat, sperando di assistere alla preghiera del mattino che in realtà qui non viene celebrata.
Ammiro per la prima volta tutta la riva che costeggia il Gange: una trasparente luce impalpabile delinea come per incanto file di terrazze grige a gradoni che si profilano all’orizzonte al cui capo si elevano possenti mura di antichi palazzi color sabbia. Davanti scorre Madre Ganga: estesa, limacciosa, lenta e cupa. La sponda oltre è inverosimilmente spoglia.
In India, dove anche nel deserto spuntano persone che ti propinano qualcosa, dove ovunque tu vada mai hai la possibilità di rimanere sola con te stessa; quel vuoto che mi appare di fronte mi sgomenta, come se la terra finisse proprio sulla battigia del fiume.
Nell’aria tersa e fresca di prima mattina, mi siedo a osservare la città che si sveglia. Pescatori di fortuna riparano o preparano le reti, appena tornati dalle loro battute di caccia. Altri uomini dormono nelle loro piccole barche di legno, sono loro i traghettatori del fiume sacro.
Da Asi Ghat a Dandi Ghat
Il mio cammino inizia dal Asi Ghat, chiamato così per il fiumiciattolo sporco che termina qui il suo corso. Qualche decina di metri più avanti appare il Tulsi Ghat, dedicato al poeta Gosain Tulsi Das del XVII secolo che tradusse il Ramayana dal sanscrito all’hindu e morì qui. Salgo la scalinata per ammirare da vicino il loggiato triporticato aperto del palazzo di due piani costruitovi a ridosso. L’interno è pieno di macerie, decido quindi di proseguire oltre.
Al Jain Ghat un’austera facciata è dominata da una piccola guglia dorata, corpo centrale del tempio dedicato al settimo Tirthankara Suparshvanatha, nato nei pressi di questo quartiere. Più in avanti al Brabhu Ghat le mura si alzano come per riparare tre templi dedicati a Shiva. Qui si celebra per sette giorni il Budhwa Mangal Festival. Continuando ammiro un antico castello le cui possenti grige mure sono sbalzate da spigolose torri della stessa altezza. Sopra tre piani sovrastano il Gange con file di finestre arcate, da cui vorrei ammirare il panorama. Il luogo è il Darbhanga Ghat, mentre la fortezza, un tempo palazzo di marajhà, è utilizzata ora come lussuoso albergo.
A poco a poco alcuni santoni entrano seminudi nelle acque per il bagno mattutino; alcuni slegano i lunghi rasta per lavarseli accuratamente; nessuno nuota, solo rituali abluzioni. Altri monaci vestiti di arancione sono in profonda meditazione in posa del loto sui gradoni più alti. Scorgo un giovane monaco, così in piena trance che le sue palpebre si aprono per rivelare il retro bianco del globo oculare. Scopro di ritrovarmi al Dandi Ghat, dove si riuniscono asceti dandi, spesso vestiti di sola cenere. Una piccola guglia rossa sorge al fianco di un minuscolo tempio seminascosto dalle scalinate.
Impressionata dal monaco continuo a camminare lungo i ghat; così mattiniera non vengo disturbata, se non da un piccolo branco di capre che discende verso il fiume. Una di loro sembra interessata alla mia borsa dove tengo i miei preziosi quaderni; divertita prendo i miei pochi averi e mi allontano, impaurita di suscitare fastidio a qualche indù per i miei modi occidentali poco consoni al luogo in cui mi trovo.
Da Harishchandra Ghat a Raja Ghat
Arrivo al primo Ghat di cremazione, Harishchandra Ghat, dove allineati fumano pire consunte. L’attività sembra ancora sospesa vista l’ora mattutina. Cataste di legno pronte all’uso giacciono in fila accanto alle mura. Non sono pronta a scoprire ciò che accade qui, preferisco non soffermarmi oltre.
Le scalinate scendono verso il fiume ripide, scheggiate e biancastre. Diventano a un tratto a strisce rosse alternate al bianco, rivolgo lo sguardo verso la città e mi ritrovo spiata da numerose statue grottesche di brumeliche divinità sgargianti pronte a prendere vita per possedere uno dei passanti. Il Ghat si chiama Kedar, ma il tempio che ospita questo spettrale teatro è chiuso.
Il mio viaggio prosegue e mi ritrovo nel Dhobi Ghat, dove alle 6:00 di mattina già le lavandaie e i lavandai sono indaffarati nel lavare nel Gange pezzi di stoffa lunghi diversi metri. Con le vesti raccolte sul bacino, le donne di buona lena stendono allegramente sgargianti sari e voluttuose pezze colme di luce sugli ampi gradoni affinché i raggi del sole mattutino asciughino velocemente i preziosi artifatti senza scolorirli. Accanto sono stese delle Tshirt con stampato il viso di Leonardo di Caprio, contrasto che mi fa sorridere.
Il grigio delle spigolose scalinate contrasta con le linee morbide e calde dei palazzi che sfilano lungo la riva, alcuni sono decadenti e residenziali, altri sono piccoli templi color ocra con le cupole in stile sikhara o possenti mura di antichi palazzi, con cupole e archi in stile moghul, i cui colori pastello sembrano variare con l’umore della luce, come a Raja Ghat.
Il centro con Dashashwameddha Ghat e Lalita Ghat
Il sole comincia a bruciare, anche per uomini intenti a riparare le barche con martelli, trivelle e pece, il cui nauseabondo odore acre si unisce al piscio di vacca scontrandosi con quello del Gange che per uno strano motivo mi ricorda il salino del mare. La pece ha la meglio e il caldo inizia a rendermi fragile e inerme.
Cerco riparo nelle strade, che sono stalle a cielo aperto, per rifugiarmi un un hotel a tre stelle, ove passo le ore più calde consumando una tiepida colazione sotto il soffio di ventilatori. Non riesco a rimanere a lungo nello stesso luogo. Nonostante l’afa imperiosa esco e continuo il mio cammino sui Ghat, circondata ormai dalla gente del posto. Alcuni mi fermano per propinarsi guide, io voglio restare sola e diniego tutti.
Una marea di bimbi urlanti vestiti di stracci salta dalle basi di alcuni spogli e bassi bastioni direttamente nel Gange; la loro gioia mi riempie di pace. Alcuni tori neri scendono i gradoni per abbeverarsi. Numerose donne si lavano le loro lunghe trecce insaponate, rigorosamente vestite coi loro sgargianti sari. Un santone insapona e lava il suo nero cane. Delle scimmie si arrampicano alle finestre, tra le sbarre delle case civili cercano di afferrare cibo. Una ragazzina divertita gli allunga pezzi di frutta dal terzo piano.
Arrivo trafelata al Dashashwameddha Ghat, da cui parte la strada principale che attraversa il centro di Varanasi dove si trova il mercato. Un ampio piazzale dà spazio a piccoli palchi di legno sormontati da rotondi ombrelloni sgualciti e pieni di buchi, sotto ai quali i mercanti sono impegnati nelle loro attività. Sarà il caldo asfissiante di mezzogiorno, ma quello che dovrebbere essere il cuore pulsante dei Ghat è deserto: solo un barbiere insapona un cliente che ammira la riva, gli altri schiacciano incuranti un pisolino sotto l’ombra amata del loro vecchio ombrellone.
Arrivo a Lalita Ghat, fatto costruire dal re del Nepal a inizio del secolo scorso, dove sorge all’interno lo splendido tempio di legno Keshava in stile nepalese, a riproduzione del Pashupatinath di Kathmandu. Di forma quadrata, l’aperto proticato ospita intricati altorilievi di divinità che si confondono con scene erotiche, simili a quelle di Kajuraho, ma non così eleganti. Due ordini sovrastanti superiori colmi di logge culminano con un sikhara. Accanto due piccole pagode a due piani con tetti spioventi mi fanno immaginare di essere approdata in Estremo Oriente.
Mi riposo dai forti raggi solari che rendono il luogo, per mia fortuna, deserto; se non per alcuni giovani monaci vestiti con tuniche arancioni che mi osservano curiosi. Come mossa da un frote magnetismo, mi trascino stordita al Ghat Jalasai, finalmente, carica di spiritualità, come se per tutto il tempo non avessi fatto altro che salire gradini verso l’ancestrale: sono pronta a vedere la distruzione prendere forma.
Il Burning Ghat, Manikarnika o Jalasai Ghat
Non posso continuare il mio cammino, sono costretta a salire come donna, alla quale è vietato l’accesso diretto al fronte. Un tizio mi si avvicina e con forza mi spinge verso l’interno della città. Io obbedisco quieta alle sue parole non proprio cortesi. Lentamente risalgo e osservo le cataste di legna disposte lungo le mura di un antica casa di pietra. Una mangusta scappa e si nasconde tra il legname e il ricordo del Libro della Giungla riaffiora, quel libro che così tanto mi condizionò nel venire in questo luogo.
Osservo uomini indaffarati che pesano su arruginiti bilanceri di ferro blu pezzi di legna contrattati come merce preziosa. Non so per quale forza trascinata, entro nel casolare, che scopro essere il luogo in cui i forestieri possono guardare il burning ghat. Il casolare è un tempio spoglio, dalle cui aperture si può osservare ciò che determinati occhi vogliono guardare.
Con un pizzico di ansia mi avvicino e scorgo il Burning Ghat in tutta la sua grandezza distruttiva. Differenti pire sono poste in ordine lineare discendente; alcune sono pronte, altre sono arse o in procinto di bruciare. Un cadavere viene posto su una di esse. Il corpo è ricoperto solo da un manto dorato, che viene sparso di alcuni unguenti.
Vicino a esso ci sono tre figli con la testa rasata, vestiti solo con una tunica bianca. Un senza casta, qui considerati aiutanti diretti di Shiva, porge al figlio, presuppongo maggiore, una torcia appena accesa. Il figlio scosta il manto e bacia la fronte del padre. Compie quindi tre giri intorno alla pira per poi darle fuoco. Il tutto avviene nel massimo silenzio.
Il fuoco divora subito il panno dorato per rivelare piedi bruciacchiati e iniziare ad ardere la pelle irrigidita che diventa nera all’istante. L’acre odore di carne raggiunge anche la mia altezza. La famiglia del defunto decide di abbandonare la scena. Io resto. Il senza casta ha con se un lungo giunco verde, con cui sistema la legna che pian piano vacilla. Non solo. Non appena ritiene la salma arsa a sufficienza, col suo bastone rompe con un gesto netto gli arti inferiori all’altezza delle ginocchia, rivoltando quel che resta all’interno. Lo scricchiolìo delle ossa mi fa rabbrividire.
Quando del corpo non resta che una sagoma, il guardiano della pira infilza il torace del defunto per rivoltarlo. Ora il fuoco si abbassa, la cremazione procede lenta, finché l’intero corpo scompare per unirsi alle fiamme, perdendo la forma a poco a poco, tranne che per il teschio. Non tutti possono permettersi la legna, se non c’è ne a sufficienza la cremazione non avviene così velocemente: il corpo impiega molto più tempo per diventare cenere rivelando ogni sua parte.
Capre e cani hanno libero accesso tra le pire; i randagi fiutano ossa rimaste intatte alla cremazione; mentre gli aiutanti di Shiva continuano col rivoltare i corpi come un macabro concerto. La cenere che alla fine resta viene spazzata da altri addetti fino al fiume che tutto ingoia.
Osservo l’accensione e l’ascensione di altre tre pire, nascosta nel mio piccolo pertugio dove nessuno mi disturba. Sembra strano, ma in queste tre lunghe ore passate sopra il Burning Ghat una profonda pace scende nel mio cuore, come se ogni fibra del mio essere fosse in armonia con tutto ciò che mi circonda.
Dai luoghi di Shiva al viaggio in Barca con Caronte
Alla soglia appare una vecchia accompagnata da un giovane che mi chiede: “Scusa, questa donna non ha soldi e le servono per comprarsi la legna per quando morirà.” Il suo viso è solcato da una ragnatela di rughe, ma i suoi profondi occhi castani spiccano vistosi. Le porgo qualche spicciolo e il giovane infastidito dal fatto che non abbia dato a lui i soldi, prima mi riprende per l’irrisoria cifra offerta, poi litiga con la vecchietta per la sua parte.
La quiete che provavo ormai è rotta, esco verso Nord per ritrovare sempre su Manikarnika Ghat il luogo più sacro di tutti: sotto una semplice loggia scorgo un altorilievo sul pavimento con quelle che dovrebbero essere le orme del dio Visnhu quando venne sulla terra. Accanto scorgo una recintata piscina che scende a gradoni: secondo la leggenda la moglie di Shiva, Parvati, avrebbe gettato il suo orecchino qui chiedendo poi a Shiva di cercarlo sulle rive del Gange. L’idea era quella di non faglierlo ritrovare nel modo che fosse sempre nei dintorni.
Scendendo verso la riva, sul Scindia Ghat, incontro pochi metri più avanti un vecchio, che mi si para davanti presentandosi con un enorme sorriso sdentato sotto folti baffi grigi. Mi propone un giro nella sua barca. Io sono ancora come in trance e fissandolo nei suoi magnetici occhi castani non posso fare a meno di accettare. La sua vecchia barca di legno è attraccata proprio accanto al tempio di Shiva decadente e obliquo nell’acqua a causa dell’eccesso del peso e di malfatti calcoli.
Non chiedo nemmeno quanto vuole, ma il mio Caronte Shiva fa di tutto per farmi sentire a mio agio e leggero voga sulle scure acque del Gange. “Mam stai bene? Sei comoda?” Annuisco pensierosa e sarà la malinconia che si impossessa di me a farlo preoccupare. Con i palmi della mano raccoglie l’acqua del fiume per dissetarsi. “Ma non ti fa male?” “No, ho gli anticorpi da quando ero bambino.” Tutto ha un senso visti i bambini che si gettano ilari a bomba nelle acque proprio accanto al burning ghat, mentre le donne continuano a lavarsi vestite.
Mi porta con ampi colpi di remi verso la sponda proibita, dove mi offre del fumo. Tira fuori un piccolo cilum di terracotta e pacifico inizia a tirare. Piccolissime rane grige saltano nella barca. Ormai scende il tramonto, il rosso sole scompare a poco a poco lanciando raggi obliqui che illuminano di fasci rosei i templi ancor più mistici. Restiamo in silenzio ad ammirare il calare della luce. Ora le sagome dei templi imbruniscono, la grande Agni Puja inizia e sciamanica musica si diffonde sul pelo delle acque.
Sopra l’obliquo tempio di Shiva sorge una luna calante, con il ventre rivolto verso la terra, come solo a questa latitudine si può ammirare. Il Gange prende spazio, lento e immenso, ventre enigmatico. Le luci della Agni Puja si riflettono ormai sulle acque, misteriosi monaci la celebrano con rituali fatti di fuoco, incenso, campane, tamburi e canti scorti dalle rovine di un tempio e i fuochi divoratori a distanza.
A un tratto mi pare di assistere a un miracolo: in questa sospensione temporale il velo di Maia si strappa e rivela il confine con una famelica dimensione ultraterrena nelle tenebre più graffianti.
Caronte Shiva mi lascia a Dashashwameddha Ghat, dove la puja è ormai conclusa. “Namaste Erica, è stato un piacere conoscerti” mi saluta porgendomi il suo cilum che ancora conservo in ricordo.
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