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Avventure per le strade di Jodhpur, Rajasthan

Abbiamo il treno in tarda serata, decidiamo quindi di immergerci nel centro storico di Jodphur anziché visitare altri Musei oltre al Forte di Mehrangarh. Vaghiamo tra le stradine della città azzurra; immersi in secoli di storia indiana. La sensazione potrebbe essere simile a quella che si prova nei vicoli di Genova o di York, tanto forte il tempo permea i muri circostanti; tuttavia l’energia del luogo trasmette più calore sia dalla terra, sia dai gioiosi passanti che non possono fare a meno di sorriderti o scambiarti un cenno di saluto.

Avventure per le strade di Jodhpur, Rajasthan

Le basse case non sono solo azzurre, ma anche bianche e color ocra; molte si affacciano con balconi coperti completamente decorati da traforazioni fitoformi, portali di antico legno si aprono su segreti cortili interni, altre scalinate spariscono nell’ombra di atri stranamente silenziosi. Altrove i vicoli scoppiano di colori delle merci esposte e i profumi di frutta esotica, pellame, incenso; i tralicci della corrente si inerpicano tra i sgargianti tappeti rajasthani; altari minuscoli o immagini enormi delle divinità si confondono nel quotidiano via vai delle gente.

Ovunque spuntano volti: giovani mercanti vestiti all’occidentale che ti invitano a provare le proprie mercanzie; timide ragazze inanellate che si nascondono lo sfuggito sorriso con il velo trasparente del loro colorato sari oppure bambini, ridenti, strepitanti, sporchi dei loro giochi, bambini ovunque.

Nella slum di Jodhpur

Proprio seguendo un gruppo di bambini che ci ritroviamo improvvisamente nella periferia della cittadina.

“Hallo! Hallo!” ci gridano salutando e invitandoci a seguirli lungo una strada decisamente più povera rispetto alle altre.

“Li seguiamo?” chiedo ai miei compagni di viaggio.

“Perché no?” concorda Marco, alzando le spalle.

Una signora sui trent’anni ci scorge lungo il vicolo e sorpresa ci invita a entrare nella sua casa. Accettiamo l’ospitalità e ci ritroviamo in un salone poco illuminato arredato con lo stretto necessario. Seduta su una sedia c’è una vecchia signora senza denti che sorridente ci fa sedere sulle due sedie libere.

Cecilia tenta di parlare in inglese, ma nessuno ci capisce; solo abbiamo un lungo scambio di sorrisi finché una decina di bambini entra in casa e danzandoci intorno ci riempie di “hallo” e saluti con la mano.

Scatto qualche foto che mostro ai bambini divertiti. La corpulenta padrona di casa offre quindi a Cecilia un piccolo pezzo di stoffa. Non sapendo cosa fare, Cecilia me lo mostra: “Che me lo voglia vendere?” mi chiede.

“Boh!” le rispondo “puoi sempre daglierlo indietro.”

Così fa Cecilia, ma la signora sembra un po’ contrariata e si fa capire a gesti che è un regalo. Io e Cecilia ci rimaniamo male; pensiamo come sempre che in qualche modo la gente voglia soldi, vincolate dai retaggi occidentali.

La legge del più forte

Salutiamo e usciamo, per poi tornare con un pacco pieno di caramelle comprate all’angolo; appena i bambini ci vedono siamo circondati da decine e decine che accorrono urlanti, quasi come se fossimo i loro supereroi.

La situazione non è facilmente gestibile; ma di nuovo appare l’ospitale signora cui Cecilia affida il pacco, confidando nella sua generosità.

“Oh Erica” mi dice poco dopo “sapessi con che forza ha preso dalle mie mani le caramelle!”

“Se non vige qui la legge del più forte, allora dove?” commento io.

Al Bazar della città blu, la Torre con l’orologio

Ormai è sera, come sempre le tenebre cadono veloci e dalle basse ragnatele elettriche si accendono grosse sfere luminose che rischiarano le bancarelle del Bazar sotto la Torre dell’orologio.

Di architettura inglese, la rossa Torre si staglia sopra il piazzale del Sadar Bazar, come un Ciclope col suo luminoso occhio che scandisce il tempo; sopra tutte le numerose botteghe di stoffa, manufatti di vetro artigianale; oltre che ai carretti di frutta e verdura.

Scorgo una bellissima gonna rossa, faccio per prenderla ma Cecilia lo fa prima di me: “Questa è perfetta!”

“Ma la stavo prendendo io!” mi lamento.

“E no! Stavolta no! Hai preso la macchina fotografica; quindi questa è mia!”

Non questiono; anche se mi ricordo di averla battuta alla mora cinese onestamente, per quella macchina fotografica che piaceva a entrambe.

Ormai è ora di prendere il treno; saluto con rammarico Jodphur, che mi ha vista vagare nei suoi meandri per solo una giornata, cui affido il lancio di una moneta con su scolpito “ritorno”.  

Foto di Marco Perolini

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